1. Il ruolo dell'informazione nella vendita dei prodotti alimentari ai consumatori
Il corretto funzionamento del mercato poggia sul raggiungimento della sua efficienza economica, ottenuta attraverso la commistione di interessi pubblici e privati e sulla libera scelta effettuata dai suoi attori nel vendere o acquistare beni e servizi: ad una classe di imprenditori in competizione, se ne contrappone una di acquirenti legati da una relazione di comunanza, i consumatori. A questi ultimi il mercato richiede una preparazione sempre maggiore, in grado di consentire loro di effettuare scelte consapevoli decodificando anche le suggestioni indotte dalla pubblicità ingannevole e dalle più sofisticate strategie di marketing, che fanno leva sulla limitata razionalità degli esseri umani 1.
In questo contesto, la trasparenza costituisce una delle esigenze più sentite dalla società civile poiché è l'antecedente logico all'autodeterminazione del singolo. Dotata di una vis espansiva che travalica le discipline e i rapporti pubblico/privato, nel diritto dei consumatori il principio di trasparenza si configura come lo strumento attraverso cui si riequilibra la posizione del contraente debole, sovente caratterizzato da una asimmetria informativa che rende difficile il maturare di una decisione negoziale cosciente e ponderata2. Concretamente, il principio di trasparenza si estrinseca nel dovere di informazione, cui dovrebbe conseguire il raggiungimento di un consenso informato3.
Per questa ragione, il ripristino delle posizioni contrattuali ideali è realizzato attraverso l'emanazione di regole in materia di trasparenza e doveri di informazione, dove la trasparenza si configura come la conoscibilità dell'oggetto e delle condizioni dell'offerta: nell'arena del mercato, diversi concorrenti immettono proposte contrattuali e i destinatari ne scelgono solo alcune, determinando la sopravvivenza di alcuni professionisti e la scomparsa di altri. La comunicazione del contenuto contrattuale è veicolata con diverse modalità: avvisi pubblicitari, documenti elettronici e cartacei, etichette sui prodotti. Il Considerando 14 della direttiva 29/2005 sulle pratiche commerciali sleali pone l'accento sull'efficienza della scelta operata dal consumatore, che è messa in discussione in tutti i casi in cui il comportamento del professionista provochi la percezione di un rapporto qualità/prezzo diverso da quello effettivo4. Si pensi alle comunicazioni commerciali relative alla responsabilità sociale di impresa, che possono ingenerare una determinazione all'acquisto al di là dei fattori economici. Questa percezione muta a seconda del prodotto in esame ed è parametrata sulle capacità cognitive del consumatore medio5.
La figura del consumatore medio è tratteggiata dalla direttiva 2005/29/CE, che al Considerando n. 18 lo definisce come colui che sia "normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici", facendo propria l'interpretazione della Corte di giustizia che sovente ha contribuito all'evoluzione di questa disciplina statuendo sul bilanciamento tra il principio di libera circolazione delle merci e le discipline nazionali6. In realtà, il consumatore medio non è una figura statica, ma evolve a seconda del segmento di mercato in cui opera e in virtù delle caratteristiche del gruppo sociale di riferimento7.
È noto come la scelta di un prodotto sia influenzata dal modo in cui questo è spiegato e presentato, in maniera più o meno esplicita: il professionista non può pertanto adottare comportamenti ingannevoli ed aggressivi tali da intaccare l'autonomia della scelta, che costituisce una precondizione al buon funzionamento del mercato.
Il consumatore, messo in condizione di essere effettivamente libero di scegliere, opta per un prodotto anziché un altro vagliandone diversi aspetti, come il prezzo e le sue caratteristiche. Il rapporto tra il prezzo e la qualità costituisce qualunque aspetto del prodotto o servizio suscettibile di essere importante per il consumatore: fra essi possiamo annoverare anche il fatto che la produzione sia conforme a standard di sostenibilità ambientale, sociale ed economica8.
In campo alimentare le finalità del diritto dell'Ue sono la sintesi tra la salute dei consumatori, gli interessi del mercato e la sicurezza dei prodotti e si traducono nel diritto all'informazione, che è in rapporto di osmosi con il principio di trasparenza, obiettivo fondamentale dello strumento informativo per eccellenza, costituito dall'etichetta9. Tecnicamente, quest'ultima è un documento che esterna la conoscenza del produttore del bene che viene immesso nel mercato. Il contenuto dell'etichetta svolge una duplice funzione: da una parte costituisce l'adempimento dell'onere informativo che inerisce l'obbligo del professionista di immettere nel mercato prodotti sicuri, dall'altro costituisce il mezzo con cui il produttore può veicolare al consumatore dati non obbligatori che abbiano lo scopo di convincerlo a scegliere il suo prodotto piuttosto che quello di un concorrente10.
In presenza di queste condizioni, il consumatore può così operare una scelta qualificata11. Nel rapporto contrattuale che si instaura nell'atto di acquisto l'etichetta riveste un ruolo fondamentale, perché contiene le clausole che costituiscono l'oggetto del contratto, cioè l'insieme delle sue caratteristiche e le concrete indicazioni della proposta dell'offerente, che pertanto riducono l'asimmetria informativa12. In questo senso, lo scambio non è più senza accordo13 ma consapevole, proprio perché poggia sull'etichetta. In altri termini, le informazioni rappresentano il contenuto della proposta negoziale del prodotto che viene accettato dal consumatore e l'ottemperanza del dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto è rappresentato dalla veridicità dell'etichetta14.
2. La correttezza dell'informazione e la consapevolezza del consumatore di alimenti nel regolamento 1169/2011
L'etichetta alimentare si trova in un incrocio di esigenze e di interessi contrapposti. Il suo essere, al contempo, strumento informativo e commerciale, ed il suo continuo rimando ad elementi pubblicitari ed al bagaglio pregresso dei consumatori, fa sì che la possibilità che induca a decisioni non sufficientemente libere, consapevoli e sicure sia un rischio costante.
Il nesso fra consapevolezza dei consumatori, loro benessere e dinamiche concorrenziali e di mercato non riguarda certo solo il settore alimentare. Tuttavia, nel caso dell'informazione del consumatore di alimenti tale connessione appare in tutta evidenza e con caratteristiche sue proprie, in ragione delle condizioni di acquisto e del peculiare ruolo dell'etichetta nella formazione del contratto15.
La consapevolezza del consumatore è individuata dal regolamento 1169/2011 come condizione per la sua protezione in termini sia di informazione sia di sicurezza, ed obiettivo generale in vista del perseguimento di ulteriori interessi di natura economica, ambientale, sociale ed etica. Lo si deduce dal Considerando n. 4, secondo cui "la legislazione alimentare si prefigge di costituire una base per consentire ai consumatori di compiere scelte consapevoli in relazione agli alimenti che consumano e di prevenire qualunque pratica in grado di indurre in errore il consumatore". In secondo luogo, emerge in relazione alla chiarezza e comprensibilità dell'etichetta nei suoi elementi di forma, quali gli aspetti relativi alla leggibilità, compresi carattere, colore e contrasto (Considerando 26), così come quelli relativi all'utilizzo di terminologia tecnica ed ai requisiti linguistici.
La questione della consapevolezza del consumatore si pone però soprattutto in relazione al contenuto delle indicazioni. Da un lato, il caso più evidente attiene a quelle che inducono in errore, perché non corrispondenti con attributi di processo e di prodotto dell'alimento. Si tratta del caso di più evidente ingannevolezza delle indicazioni in etichetta, su cui le iniziative degli organi di controllo sono più numerose, e in relazione alle quali le sanzioni sono più frequenti16. Tuttavia, la questione della lealtà di tali pratiche (nel senso della precisione, chiarezza e comprensibilità) si presenta non solo nel divieto di apporre in etichetta indicazioni dal contenuto apertamente ingannevole perché non veritiero, ma anche in quella sfera grigia consistente nel messaggio allusivo, fuorviante, di per sé non integrante un'indicazione falsa ma che, nell'interazione con altre indicazioni o con il bagaglio cognitivo pregresso del consumatore, incide negativamente sulla capacità di quest'ultimo di effettuare scelte di acquisto consapevoli17.
Questa seconda ipotesi di sviamento è ravvisabile se si considera che l'etichetta veicola informazioni attraverso un linguaggio sintetico fatto di definizioni, segni e simboli che richiedono un processo di decodificazione da parte del consumatore, e che su tale attività incide sia il rimando fra indicazioni in etichetta dal carattere diverso (informativo nel caso delle obbligatorie e concorrenziale in quello delle volontarie) sia l'interazione con la cultura pregressa di quest'ultimo.
La molteplice funzione dell'etichetta si desume chiaramente dal regolamento 1169/2011, art. 7, che stabilisce i principi fondamentali per la valutazione della correttezza dell'informazione nel settore alimentare. L'etichettatura è qui collocata nel contesto generale delle pratiche leali di informazione, in cui rientrano anche la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari18. D'altra parte, detto regolamento, nell'articolo 36 relativo alle indicazioni volontarie, stabilisce che esse "a) non inducono in errore il consumatore, come descritto all'articolo 7; b) non sono ambigue né confuse per il consumatore; e c) sono, se del caso, basate sui dati scientifici pertinenti." Nient'altro è stabilito sul punto se non la possibilità che la Commissione adotti atti di esecuzione sull'applicazione di tali requisiti a particolari categorie di informazioni volontarie. Eppure, molte questioni relative a tale categoria di informazioni rimangono aperte, quali la collocazione visiva in etichetta, la necessità di applicare anche ad esse criteri armonizzati, la regolazione dei rapporti reciproci fra indicazioni volontarie e indicazioni obbligatorie, e così via19.
Tutto ciò conduce ad affermare che il maggiore elemento di criticità attiene al passaggio dalla conoscibilità, intesa come diritto ad ottenere le informazioni richieste, alla presenza di una serie di dati da cui derivi una conoscenza effettiva da parte dell'utente20. Sul punto, al di là dell'art. 36 precitato, il regolamento non si esprime, ma il problema si pone in molti casi in cui la valenza allusiva delle indicazioni è evidente. A tal proposito la Corte di giustizia si è espressa in alcuni episodi, ma diversi elementi di criticità continuano a non trovare compiuta risposta21.
3. Casi critici di ambiguità fra esplicito, non detto e percepito
Come emerso dalla precedente sezione, l'equilibrio delle informazioni obbligatorie in etichetta e l'interazione fra queste e gli elementi di marketing inseriti dagli operatori per captare i bisogni ed orientare la domanda pongono questioni che rimangono perlopiù irrisolte.
Si pensi all'utilizzo talvolta strumentale della naturalità, indicata in etichetta con effetto "pubblicitario" o "emozionale" piuttosto che descrittivo, espressa con colori o caratteri di impatto per il consumatore, ma in realtà connessa ad attributi di composizione del prodotto riferiti a parametri precisi, quali una variazione di composizione che si voglia pubblicizzare come più salutare, o all'assenza o presenza di un determinato ingrediente22. D'altra parte, l'informazione volontaria ha anche riguardato una serie ulteriore di attributi a cui la platea dei consumatori ha dimostrato di essere sensibile, e che si collocano, seppur in senso lato, nel concetto di qualità.
Una disamina di questi casi deve essere preceduta dall'avvertenza che elementi critici di ambiguità fra esplicito, non detto e percepito si pongono in diverse prospettive. Una prima riguarda il tema degli effetti distorsivi nel binomio obbligatorietà/volontarietà, mentre una seconda riguarda l'utilizzo delle indicazioni volontarie in modo da conquistare il favore del consumatore agendo su stereotipi, preconcetti e convinzioni pregresse che non rispondono ad elementi certi attinenti alla sicurezza o qualità del prodotto in questione.
In primo luogo, si consideri che l'obbligatorietà di un'indicazione presuppone una presa di posizione del legislatore circa la necessaria conoscenza di tale dato, da parte del consumatore, ai fini dell'operare scelte consapevoli. Su tale decisione politica incidono sia pressioni esterne al sistema considerato (in particolar modo quelle dell'Organizzazione Mondiale del Commercio) sia pressioni interne (si pensi alle iniziative di lobbying da parte di soggetti privati interessati da tali scelte).
Si consideri un caso noto di difformità fra l'orientamento europeo e quello tipico di altri membri dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, su cui premono anche altri attori nell'arena globale. Ci riferiamo all'obbligatorietà dell'indicazione della presenza di Organismi Geneticamente Modificati (OGM), prevista dal regolamento UE 1830/2003 in relazione a tutti i prodotti la cui percentuale di OGM ecceda lo 0,9%23. Tale disposizione, conseguenza dell'approccio precauzionale tradizionalmente tenuto dalle istituzioni UE, è contestata a livello internazionale giacché veicola il messaggio che vi sia una qualche differenza intrinseca fra OGM e prodotti convenzionali, e che conduca i consumatori a preferire i secondi. Tali contestazioni sono mosse da quegli stati produttori di OGM che sostengono l'indifferenza fra colture GM e convenzionali, e che dunque affermano che la presenza di OGM nei prodotti non debba essere necessariamente indicata in etichetta24.
D'altra parte, il tema dell'obbligatorietà si pone anche in relazione alla possibile iniziativa degli Stati membri nell'imposizione di indicazioni obbligatorie complementari ai sensi dell'art. 39 del regolamento 1169/2011. Si pensi, in particolare, all'imposizione dell'indicazione dell'origine in etichetta da parte di alcuni Stati membri, intrapresa nel corso dell'ultimo anno in relazione a singoli prodotti e filiere produttive. E' il caso della Francia (in relazione a latte, latticini e prodotti a base di carne) e dell'Italia (in relazione a latte e derivati), che hanno presentato tali iniziative nella prospettiva di aumentare la trasparenza dell'informazione e la consapevolezza del consumatore. Tuttavia, la loro compatibilità con alcuni dei principi cardine del mercato unico europeo rimane un tema aperto, poiché tale imposizione altro non fa che assecondare la tendenza del consumatore a preferire i prodotti provenienti dal proprio paese d'origine o da paesi limitrofi rispetto agli altri per una sua pura tendenza etnocentrica, a prescindere da elementi oggettivi25. Per questa ragione, sono numerose le obiezioni (soprattutto da parte dei produttori di alimenti trasformati) che sottolineano come tali iniziative altro non facciano che frammentare il mercato in nome di un dato (quello dell'origine territoriale) che nulla ha a che vedere con attributi di sicurezza e di qualità.
In una diversa prospettiva, l'ambiguità (seppur formalmente scongiurata nel già citato art. 36) si propone piuttosto spesso nelle indicazioni volontarie, a cui l'imprenditore ricorre al fine di enfatizzare le proprietà del prodotto e quindi attirare il favore del consumatore. Al di là dei casi di mancata corrispondenza fra attributi comunicati e attributi effettivamente presenti, merita una particolare riflessione il caso in cui possa esserci un'ambiguità derivante da un preconcetto da parte del consumatore, anche qualora questo sia completamente o parzialmente infondato. Si pensi all'assenza di un determinato ingrediente cui la platea dei consumatori associ un valore negativo. E' il caso dell'olio di palma, che negli ultimi anni è stato oggetto di campagne incrociate, volte a mettere in luce le conseguenze negative del massiccio uso fattone dall'industria agroalimentare. Ciò ha condotto ad una sempre più elevata diffidenza da parte della maggioranza dei consumatori per ragioni che, intrecciandosi, hanno portato a demonizzare il prodotto di per sé senza distinguere fra le conseguenze in termini di salute dei consumatori (rispetto ad altri grassi vegetali) e quelle di sostenibilità ambientale26.
L'analisi dei segni dell'etichetta dimostra come tale campo sia caratterizzato da numerose zone grigie, in cui si mescolano intenti ed interessi diversi, e in cui i tradizionali binomi pubblico/privato e obbligatorio/volontario tendono ad essere superati dall'intraprendenza degli operatori del settore e dalle interazioni con soggetti terzi di natura privata o ibrida27. Si pensi al fenomeno, sempre più diffuso, dei semafori nutrizionali28, ovvero di forme di segnalazione cromatica della presenza di nutrienti che possono condurre ad effetti distorsivi del mercato anche sulla base di elementi cognitivi preconcetti che incidono sulle scelte di acquisto in nome di malintesi ed elementi culturali preesistenti. Si pensi, ancora, alle certificazioni di processo relative alla sostenibilità intesa nella sua triplice dimensione ambientale, economica e sociale, massicciamente utilizzate nell'etichettatura di un numero crescente di prodotti ma talvolta aspramente contestate in quanto fuorvianti per il consumatore e costituenti ostacolo a principi fondamentali del diritto del commercio internazionale29.
Tali questioni trascendono, evidentemente, il tema dell'etichettatura in senso stretto, e si collocano in uno spazio attinente alle pratiche di informazione considerate nel loro complesso. Devono dunque essere valutate secondo i principi che regolano le pratiche commerciali sleali.
4. Le indicazioni fuorvianti in etichetta come pratica commerciale sleale ex Dir. 2005/29
La vendita e il consumo di prodotti alimentari sono ancorati, come abbiamo visto, alle regole di etichettatura ma non sono scindibili da quelle sulla loro presentazione e pubblicità30. La corretta informazione del consumatore è perseguita sia attraverso l'uniformazione del contenuto delle etichette31 sia attraverso il divieto degli atti e delle pratiche commerciali utilizzate per alterare in modo significativo il suo comportamento32.
Ai fini di questo secondo aspetto, appare più problematico l'inquadramento della disciplina relativa alle indicazioni volontarie sugli alimenti, che l'imprenditore utilizza aggiungendo elementi ulteriori con lo scopo di esaltare le proprietà del prodotto e quindi attirare l'attenzione del consumatore in ragione del messaggio pubblicitario33. Questo comportamento può rappresentare un vantaggio indebito che rileva nella duplice direzione della concorrenza e della tutela del consumatore finale.
La direttiva 2005/29 persegue il fine di realizzare una armonizzazione completa delle norme europee in materia di pratiche commerciali sleali nella prospettiva di elevare il livello di tutela dei consumatori e di contribuire al corretto funzionamento del mercato interno. La disciplina in esame interseca diversi aspetti pubblicitari già normati dalle direttive 84/450/CEE, 97/55/CEE e 2006/114/CEE.
La direttiva 29/2005 è finalizzata a regolare il momento in cui il professionista si propone al consumatore, cioè l' "atto del consumo nel suo aspetto dinamico"34. Il ruolo del diritto si evince dal Considerando n. 5 della direttiva, che evoca il bisogno di "chiarire alcuni concetti giuridici". La direttiva modifica la disciplina esistente sulla pubblicità e individua le pratiche commerciali sleali, che si concretizzano in comportamenti non diligenti dei professionisti o comunque idonei ad alterare la libertà di scelta dei consumatori. Le pratiche sleali più comuni possono configurarsi come tentativi di aziende spregiudicate di accaparrarsi le risorse di fiducia accumulate da altre aziende, ad esempio imitandone i prodotti o i segni distintivi, finanche cercando di carpirne i segreti aziendali. L'art. 5 prospetta pertanto una definizione generale di pratica sleale, seguita da un articolato che definisce due tassonomie speciali di slealtà: quelle ingannevoli, di cui all'art. 6 e 7, e quelle aggressive, di cui all'art. 8 e 9, corredate da un elenco che annovera le pratiche da considerarsi in ogni caso sleali, siano esse ingannevoli o aggressive. La pubblicità rientra nella disciplina della direttiva 29/2005 anche se modalità di promozione del prodotto mettono a repentaglio la sfera razionale cui si rivolge l'informazione35. Attraverso la pubblicità, le imprese riescono ad attribuire ai loro brand valori emotivi e sociali che vanno oltre la semplice promozione del prodotto: word of mouth, marketing occulto, ambient advertising, product placing sono tecniche in grado di influenzare i consumatori proprio perché minando le loro difese immunitarie li attaccano in luoghi e momenti dove essi non pensano di essere soggetti passivi di una campagna pubblicitaria.
Particolarmente insidiose sono le azioni ingannevoli, che si concretizzano in un'informazione formalmente corretta ma trasmessa in modo tale da trarre in errore. Pur veicolando un messaggio veritiero e nonostante l'assenza di un danno patrimoniale effettivo, gli art. 5 e 6 della direttiva reprimono la comunicazione che mette in pericolo l'autonomia decisionale del consumatore. In particolare, il comma 2 dell'art. 6 annovera fra le attività sleali quelle di marketing, ivi compresa la pubblicità comparativa, che sia finalizzata a confondere marchi, prodotti, denominazione sociale e altri segni distintivi. L'effetto decettivo è raggiunto anche con modalità espositive o omissioni ingannevoli, la cui repressione mira a tutelare l'efficacia del mercato e il benessere del consumatore.
La questione delle pratiche ingannevoli si innesta a pieno regime nell'etichettatura dei prodotti alimentari perché attraverso di lei il produttore può esaltarne le caratteristiche qualitative che li differenziano dagli altri: ciò comporta l'enfatizzazione di aspetti che altrimenti non sarebbero valorizzati. In questo contesto si colloca il già citato regolamento 1169/2011, che con il suo articolo 7 si erge a norma di riferimento per quanto concerne le informazioni da fornire al consumatore di alimenti, che devono essere precise, chiare e facilmente comprensibili. Inoltre, quest'ultime non devono indurlo in errore, con riguardo alle caratteristiche del prodotto, attribuendogli effetti o proprietà di cui non gode, o suggerendo che l'alimento possieda in esclusiva qualità che tutti i prodotti simili hanno, oppure facendo credere, tramite l'aspetto della presentazione, che l'alimento abbia particolari ingredienti. Se il professionista non è vincolato da un obbligo previsto dal regolamento, la decettività del suo messaggio è comunque valutata alla stregua degli articoli 6 e 7 della direttiva 2005/29 sulle pratiche commerciali sleali.
Il dialogo delle due norme si svolge tra il 5° Considerando del regolamento e l'articolo 4 della direttiva e consente di definire la loro relazione come un rapporto di specialità: la natura generale e sussidiaria della direttiva è infatti sancita dal paragrafo 4 dell'art. 3 della direttiva stessa, mentre il 5° considerando prevede che il regolamento integri i principi generali della direttiva. Il regolamento 1169/2011 si configura pertanto come lex specialis che prevale e al tempo stesso ispira la lex generalis costituita dalla direttiva 29/200536. In mancanza di una previsione espressa del regolamento, la comunicazione commerciale che alteri il processo decisionale del consumatore mediante la fornitura di informazioni suggestive ricade nel campo di applicazione della direttiva37.
Al di là di queste considerazioni sui rapporti reciproci fra direttiva e regolamento, è evidente che molte delle criticità sollevate non trovano pacifica soluzione. Altre valutazioni verranno elaborate in sede di conclusione.
5. Conclusioni
Alla luce di quanto detto, appare opportuno svolgere alcune considerazioni sull'etichettatura come strumento informativo e sull'ambiguità di fondo delle indicazioni ivi apposte.
In primo luogo, secondo la nostra opinione, l'obiettivo della creazione della consapevolezza da parte del consumatore è tradito non tanto per la scarsità di indicazioni obbligatorie, ma perché non è mai stato considerato fino in fondo il fatto che l'etichetta persegue allo stesso tempo due obiettivi in controtendenza. Da una parte, quello più propriamente informativo (tendenzialmente perseguito dalle indicazioni obbligatorie, seppur con le contraddizioni di cui si è detto) e, dall'altra, quello promozionale, di enfatizzazione delle qualità del prodotto, cui mirano le indicazioni facoltative. La confusione anche visiva fra queste, l'interazione con elementi simbolici, cromatici, di forma e la strumentalizzazione di dati preconcetti fanno sì che la consapevolezza del consumatore rimanga una stella polare cui puntare, ma che vi sia comunque spazio per un utilizzo strategico di tali indicazioni qualora esse siano comunque veritiere.
Questi elementi ci conducono ad una duplice conclusione. Da un lato, la consapevolezza del consumatore non può essere efficacemente perseguita semplicemente fornendo informazioni più abbondanti, perché l'overdose informativa di cui il consumatore è vittima altro non fa che disorientare i soggetti più vulnerabili. Dall'altro, non si può delegare all'etichetta (ultimo, in ordine di tempo, degli strumenti informativi disponibili) il compito di orientare scelte di consumo collegate alla cultura alimentare pregressa, cui contribuisce inesorabilmente il sistema informativo nel suo complesso.
E' auspicabile, dunque, che il legislatore elabori principi comuni alle indicazioni tout court, riconsiderando l'attuale netta distinzione fra indicazioni obbligatorie ed indicazioni volontarie, giacché tale binomio risente di una impostazione formalista, è giuridicamente discutibile e lascia irrisolte molte delle criticità collegate a indicazioni formalmente corrette ma in concreto fuorvianti per il consumatore. Per fare ciò, è necessario che muova dalla consapevolezza che l'etichetta è la risultante di un intervento congiunto fra legislatori e regolatori pubblici e privati, e che non si possano ignorare le prospettive offerte dagli studi di psicologia e dalle neuroscienze.