1. Introduzione
Il 24 Luglio 2017, davanti all'Alta Corte di Londra, si è svolta l'ultima udienza del lungo iter giudiziario riguardante il piccolo Charlie Gard, con cui la High Court ha confermato l'autorizzazione alla sospensione dei trattamenti intensivi per il bambino.
La vicenda giudiziaria ha coinvolto sette giudici in tre corti inglesi (High Court, Court of Appeal, UK Supreme Court) ed altri sette della Corte Europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo (EDU), che hanno tutti raggiunto la stessa conclusione: sottoporre Charlie a trattamenti sperimentali avrebbe significato "continuare a causargli un danno significativo" (Dyer, 2017).
La storia clinica e legale di Charlie ha avuto un'eco enorme nel mondo scientifico e medico, ma anche in quello politico e mediatico, riguardando, così, non solo la relazione di cura tra i medici e i genitori di Charlie e il processo decisionale ad essa relativo, ma anche questioni di etica pubblica.
Il bambino inglese, apparentemente in salute alla nascita, era affetto da una rara sindrome encefalomiopatica da deplezione del DNA mitocondriale, della quale si attestano 15 casi in tutto il mondo. La sindrome, causata da mutazioni in un gene chiamato RRM2B coinvolto nel mantenimento del DNA dei mitocondri, è ereditaria e comporta l'esaurimento del DNA mitocondriale nei suoi organi (Dyer, 2017) e il loro conseguente e progressivo deperimento. Al momento in cui i medici del Great Hormond Street Hospital di Londra, in cui Charlie viene ricoverato, chiedono l'autorizzazione al giudice per sospendere i trattamenti e somministrare cure palliative, il bambino è costretto ad uno stato di incoscienza e alla quasi totale incapacità motoria, unita all'incapacità di respirare autonomamente. L'aspettativa di vita è breve e la qualità di vita residua è molto scarsa. La motivazione della richiesta al giudice è che la sospensione dei trattamenti possa rappresentare il best interest del paziente. Il giudice di primo grado è chiamato ad esprimersi anche sulla richiesta di sottoporre Charlie Gard ad una cura sperimentale negli Stati Uniti, sostenendo che questa opzione sia nel reale best interest del piccolo Charlie. La cura è stata usata precedentemente, ma solo in differenti forme della malattia.
Il giudice di primo grado, in seguito ad una serie di consulenze mediche, decide per la sospensione della ventilazione artificiale e nega l'autorizzazione al trattamento sperimentale, perché esso causerebbe "pain, suffering and distress" e, secondo quanto scritto nella sentenza, "In Charlie's case there is a consensus from all of the consultants and doctors that nucleoside treatment is futile"1.
I genitori di Charlie Gard ricorrono in appello alla Court of Appeal, chiedendo di riconsiderare la possibilità di sottoporre il piccolo al trattamento sperimentale e l'appellante utilizza le seguenti argomentazioni: 1) la negazione del trattamento sperimentale porterà alla morte certa del bambino, mentre non ci sono motivi sufficienti per escludere che il trattamento porti beneficio, 2) il giudice dovrebbe applicare il test del significant harm2 per poter negare a dei genitori di sottoporre il figlio ad una cura sperimentale e, infine, 3) una decisione giurisdizionale in tal senso comporta un invasivo intervento statale nella vita privata e familiare e né la Corte né l'ospedale sono legittimati a condizionare l'autonomia decisionale dei genitori.3
La Corte d'Appello rifiuta le argomentazioni proposte dall'appellante e conferma la sospensione dei trattamenti e la somministrazione delle cure palliative come migliore opzione in favore del best interest del bambino.
Nella fase successiva di questa complicata vicenda giudiziaria, i genitori del piccolo Charlie fanno ricorso alla Supreme Court utilizzando l'argomento del significant harm - già proposto alla Corte d'Appello - e quello secondo cui, nel caso in cui i due genitori siano d'accordo sul best interest del figlio, qualsiasi interferenza esterna è ritenuta ingiustificabile. Appellandosi alla normativa nazionale e internazionale, la Supreme Court rifiuta entrambe le argomentazioni e, dopo aver considerato l'intenzione dei genitori di rivolgersi alla corte EDU, tiene un'udienza ulteriore in cui conferma la propria posizione, ma prolunga i tempi per la sospensione dei trattamenti.
La Corte di Strasburgo, a sua volta, dichiara inammissibile il ricorso presentato dai genitori del piccolo Charlie, che si basava sulla supposta violazione degli articoli 2, 5, 6 e 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (CEDU) (diritto alla vita, diritto alla libertà e alla sicurezza, diritto ad un processo equo, diritto al rispetto della vita privata e familiare). Secondo la Corte di Strasburgo il ricorso è manifestatamente infondato, ritenendo, sostanzialmente, che le decisioni prese dalle Corti Britanniche non sono state né sproporzionate né infondate.
L'ultimo atto del lungo iter giudiziario del piccolo Charlie è quello con cui il 24 Luglio 2017 la High Court, su richiesta dell'ospedale, conferma il provvedimento del mese di Aprile con cui autorizzava la sospensione dei trattamenti e la somministrazione di cure palliative. L'ultima pronuncia arriva in un clima di sostanziale concordanza tra le parti coinvolte, in cui i genitori ―anche in seguito ad ulteriori accertamenti medici― hanno realizzato che la decisione presa dalla corte, su richiesta dell'ospedale, rappresentasse il miglior interesse del piccolo Charlie.
L'analisi che segue si propone di esaminare in maniera critica alcune questioni etiche che, anche indirettamente, riguardano il caso del piccolo Charlie. Il tentativo di questo contributo è di superare il linguaggio dei diritti proposto nei vari ricorsi presentati dai genitori e di proporre argomentazioni per una valutazione etica e biogiuridica più ampia. I temi affrontati sono i seguenti: Best Child interest, Pianificazione condivisa delle cure; Cure sperimentali non autorizzate; Diritto di sperare.
2. Best child interest
L'intervento dei giudici per stabilire il miglior interesse del piccolo Charlie rappresenta una necessità. Come evidenziato da uno dei giudici coinvolti della High Court "Almost all of the time parents make decisions about what is in the best interests of their children and so it should be. Just occasionally, however, there will be circumstances such as here where a hospital and parents are unable to decide what is in the best interests of a child who is a patient at that hospital. It is precisely because the hospital does not have power in respect of that child that this hospital makes an application to the court, to an independent judge, for a determination of what is in that child's best interests. In circumstances where there is a dispute between parents and the hospital, it was essential that Charlie was himself independently represented and a guardian was therefore appointed to represent Charlie so that there was someone who could independently report to the court as to what was in his best interests".4
Lo standard del best interest viene utilizzato come standard internazionale legale ed etico da più di 200 anni. Nel caso di Charlie Gard, però, il suo utilizzo è stato ritenuto da alcuni non idoneo per vari ragioni e, come ha sostenuto Seema K. Shah, "the best interest standard provides a starting point for clinicians but does not indicate when clincians should go to the courts to impose medical decisions on families" (Seema K. Shah, 2017).
Come il concetto di futility, difficilmente definibile in modo oggettivo, così anche quello di best interest è limitato da valutazioni soggettive e relative al singolo caso. Cionondimeno, esso rappresenta un utile criterio risolutivo, se utilizzato in maniera equilibrata e bilanciata con gli interessi, i valori e le credenze non solo del paziente, ma anche del resto delle persone coinvolte.
3. Pianificazione anticipata delle cure: shared decision making, autonomia relazionale e vulnerabilità
Una delle questioni etiche e cliniche degne di analisi critica che emerge, seppur in maniera indiretta, dalla vicenda del piccolo Charlie riguarda la pianificazione anticipata delle cure (PAC). La PAC nella letteratura internazionale è definita in modo non univoco, anche se la nozione di Advance care planning (ACP) risulta quella maggiormente utilizzata. Essa rappresenta, indubbiamente, lo strumento più idoneo a concordare un piano di cure condivise, in cui il paziente ―o la persona individuata per rappresentare le volontà o il miglior interesse nel caso di paziente incapace o minore― esprime le sue scelte in merito ai trattamenti considerati futili, sproporzionati o non rispondenti al suo concetto di qualità di vita. Inoltre, la PAC permette di coinvolgere il paziente o il suo fiduciario nel processo di cura step-by-step. In Italia, infatti, si parla di "Processo condiviso di Advance Care planning" (SIAARTI, 22 Aprile 2013) intendendo "le pratiche di condivisione anticipata del piano delle cure". Tale definizione, rispetto a quella di ACP, sottolinea la natura in progress della pianificazione e la sua condivisione con l'equipe di cura. La PAC può essere, quindi, definita come "il processo formale di decision-making" (Mullick, 2013) e la tutela dello shared decision making ha un valore non solo clinico, ma anche etico: implementare l'ACP, infatti, serve ad evitare che la voce del paziente ―o di chi lo rappresenta― non sia ascoltata e che la relazione tra l'equipe di cura, il paziente e i suoi familiari sia costruita correttamente. L'ACP fornisce, infatti, un utile ausilio agli operatori sanitari nell'affrontare comunicazioni difficili: alcuni studi hanno dimostrato che decisioni inappropriate riguardo al prolungamento della vita o alla somministrazione di terapie futili sono causate dalla difficoltà dei curanti nel comunicare le cattive notizie sulla diagnosi, le opzioni di trattamento e la prognosi, nei tempi giusti e nei modi adatti ed efficaci (Hillman, 2015).
La possibilità di scegliere nel miglior interesse e dopo essere stati adeguatamente e correttamente informati è uno dei modi di tutelare il diritto alla salute, intesa nella definizione dell'OMS come "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia". Si tratta di scelte compiute all'interno di un processo decisionale condiviso e co-costruito nel quale il paziente ―o chi ne fa le veci― è al centro: non solo tutela della volontà della persona malata o del suo rappresentante, ma anche rispetto per le scelte compiute a seguito di una corretta e chiara informazione.
In questo quadro, il medico mette a disposizione le sue conoscenze tecniche, scientifiche e relazionali al fine di condividere la pianificazione della migliore cura nel caso singolo.
Ciò dovrebbe garantire il bilanciamento tra le conoscenze dei medici curanti e le volontà o convinzioni delle persone coinvolte, che si traduce nella ricerca di un equilibrio "morale" tra principi: l'autonomia, per esempio, deve essere bilanciata non solo dalla beneficenza, ma anche dal principio dell'autonomia relazionale. Secondo MacKanzie (Mackanzie, 2014) l'autonomia relazionale è espressione che si riferisce a diverse teorie, le cui assunzioni di base riguardano l'idea di una identità intersoggettiva e contestuale. Per esempio, secondo l'etica della cura, l'autonomia deve essere concepita in maniera relazionale poiché essa emerge all'interno di relazioni caratterizzate da interdipendenza e vulnerabilità (Botti, 2012). L'autonomia non viene sacrificata, ma è rafforzata dalla partecipazione attiva del paziente ―o del suo rappresentante ―nella relazione di cura (Nedelsky, 1989). La dignità, il rispetto e l'empatia rappresentano, così, concetti chiave nella definizione di autonomia relazionale (Slote, 2007).
L'approccio appena descritto integra il ragionamento etico classico uscendo dalle categorie standard del moral reasoning e ha una traduzione concreta nell'ACP. Attualmente non esistono studi quantitativi a dimostrazione della efficacia dell'ACP (Lewis, 2016), ma è sicuramente possibile sostenere che una pianificazione anticipata della cura condivisa può migliorare la comunicazione tra operatori, pazienti e familiari. Essa può, quindi, essere d'aiuto nell'individuazione della migliore opzione di cura, nel rispetto sia delle conoscenze tecniche dei medici - garanzia della salute e della qualità di vita della persona malata - che delle volontà del paziente o del suo rappresentante. Nello specifico, con riferimento al caso del piccolo Charlie è stato dimostrato che, tra i possibili benefici dell'ACP, c'è la diminuzione di cure mediche aggressive e un aumento della qualità della vita nelle fasi finali (Mullick, 2013). Le sentenze dei diversi giudici coinvolti nella vicenda di Charlie Gard hanno sottolineato come sia la prosecusione di trattamenti artificiali che l'attuazione di cure sperimentali potessero causare ulteriore dolore e sofferenza al bambino, senza nessuna prova di eventuale beneficio. La sospensione delle cure, l'attuazione di terapie sperimentali, le scelte riguardo alla fase finale della vita rappresentano materia di dibattito medico, legale ed etico in base anche alle diverse legislazioni (Council of europe, 2014), ma rappresentano soprattutto oggetto di decisioni del paziente o di chi ne fa le veci. Ne consegue che l'utilizzo dell'ACP può essere d'aiuto nell'arrivare a concordare su questi aspetti, prima ancora che ―come si legge nella sentenza summenzionata― "there will be circumstances such as here where a hospital and parents are unable to decide what is in the best interests of a child (...). It is precisely because the hospital (...) makes an application to the court, to an independent judge, for a determination of what is in that child's best interests".
Infine, l'approccio di cura delineato da una condivisione anticipata garantisce non solo l'autonomia delle scelte, ma anche la protezione della vulnerabilità dell'individuo sofferente. Nel caso del piccolo Charlie la protezione della sua condizione di vulnerabile rappresenta un elemento sostanziale del dibattito. Al contrario delle etiche classiche basate su generali assunzioni di protezione dei propri interessi e autodeterminazione, le etiche relazionali assumono che la vulnerabilità sia l'altro lato dell'autonomia, in quanto imprescindibile caratteristica della condizione umana (MacKanzie, 2014; Mortari, 2015; Hoffmaster, 2006). L'utilizzo della categoria della vulnerabilità in campo bioetico deve tenere conto, però, oltre che della sua qualità esistenziale ―condizione strutturale dell'esistenza che tutti condividiamo― anche della sua particolare condizionatezza, legata alla sofferenza, alla malattia, al dolore e all'individualità. Nel campo della riflessione medico-etica, alcuni bioeticisti e filosofi morali hanno sostenuto che il riconoscimento della comune condizione di vulnerabilità rappresenta l'unico modo per promuovere l'autonomia o la beneficenza verso altri (Dodds, 2007).
Una riflessione etica su un caso medico e giudiziario complesso come quello del piccolo Charlie, non può non tenere conto dell'ampiezza del dibattito bioetico e del bilanciamento di principi, interessi e valori in campo, nell'ottica di una tutela non solo legale, ma anche morale di tutte le parti coinvolte.
4. Cure sperimentali non autorizzate
Di fronte all'ipotesi proposta dall'ospedale e accordata dai giudici della sospensione dei trattamenti, i genitori di Charlie Gard hanno proposto un trattamento sperimentale che non era stato mai utilizzato precedentemente in pazienti con la tipologia di malattia del bambino.
Il dibattito relativo alle cure sperimentali ―nelle diverse forme in cui esse possono presentarsi― pone una molteplicità di questioni etiche e giuridiche. Con Compassionate Use Programs (CUP) si intendono presidi ancora non regolarmente approvati e in fase di sperimentazione (Balasubramanian, 2016). Secondo la definizione della European medicine Agency (EMA) "compassionate use is a treatment option that allows the use of an anhautorized medicinal product which is under development" (European Medicine agency. Compassionate use). Pur non trattandosi di CUP nel senso classico, è interessante riportare alcuni alcuni principi di fondo che il Decreto italiano (Decreto 8 Maggio 2003) in merito ben illustra, perchè interessanti anche per il caso in questione. Un farmaco può essere richiesto per uso al di fuori della sperimentazione clinica "quando non esista valida alternativa terapeutica al trattamento di patologie gravi, o di malattie rare o di condizioni di malattia che pongano il paziente in pericolo di vita"; il farmaco deve essere oggetto di studi sperimentali, anche se non relativi al caso specifico oppure ancora in corso; i dati disponibili sulle sperimentazioni devono essere sufficienti per formulare un giudizio favorevole sull'efficacia e la tollerabilità del farmaco.
L'assenza di un quadro di riferimento evidence-based comporta procedure decisionali non sempre univoche e, spesso, legate alle dinamiche del singolo caso, ma la rilevanza clinica ed etica della questione dei trattamenti non validati ad uso compassionevole trova le sue basi anche in Documenti internazionali, come la Dichiarazione di Helsinki-ART.37: Nel trattamento di un singolo paziente, quando non esistono cure comprovate o altri interventi conosciuti non si sono dimostrati efficaci, il medico con il consenso del paziente o di un legale rappresentante, può usare un intervento non provato se tale farmaco può costituire una speranza per salvare la vita, ristabilire l'integrità fisica o alleviare le sofferenze (Helsinki Declaration). Come illustra l'articolo 37 della Dichiarazione, le questioni etiche prima facie riguardano il consenso del paziente, la capacità decisionale, il diritto di sperare, la qualità di vita. Ma non solo. Wilkinson e Savulescu (Wilkinson, 2017) proprio in merito al caso di Charlie Gard scrivono che "there should be a low threshold for allowing innovative therapies in patients who have exhausted all other conventional medical therapies and otherwise will die (...). There are of course limits to aggressively offering experimental treatment, particularly where side effects of treatment may make it highly likely not to be in the individual's interests. In this case it may be better to allow a time-limited trial of the therapy (...)" (Wilkinson, 2017).
La negazione dell'accesso alle cure sperimentali ha rappresentato una questione centrale ed eticamente controversa nel caso di Charlie, data la situazione clinica complessa del bambino e le scarse possibilità di successo della terapia sperimentale proposta, unite al rischio di causare sofferenza inutile.
5. Diritto di sperare
La richiesta di sottoporre il figlio ad un trattamento sperimentale non validato è stata più volte sostenuta da parte dei genitori di Charlie, ottenendo parere negativo sia da parte dell'equipe di cura dell'ospedale di Londra, che da una serie di consulenti esterni e dai giudici coinvolti. L'utilizzo di cure sperimentali può essere discusso anche come problema relativo alla questione controversa del "diritto di sperare". Negli Stati Uniti esistono le Right to try laws adottate per consentire a malati in condizioni molto gravi di accedere a trattamenti non validati che abbiano superato solo le prime due fasi di sperimentazione; in questa forma tale diritto è stato richiamato anche in alcuni paesi europei in specifiche sentenze. In Italia il "diritto alla speranza" è stato richiamato in sentenze relative soprattutto al caso Stamina. Per esempio, nell'aprile 2013 il giudice del lavoro ordinava agli Spedali Civili di Brescia di somministrare il trattamento come da metodica Stamina, secondo il protocollo in uso con stamina Foundation, previo parere favorevole reso in via d'urgenza dal Comitato etico con specifica pronuncia sul rapporto favorevole fra i benefici ipotizzabili e i rischi prevedibili del trattamento proposto. Viene presentato ricorso al Tribunale ordinario chiedendo conferma della stessa, previa eliminazione della necessità di richiesta del parere del Comitato etico o, in subordine, eliminando la richiesta specifica di valutazione sul rapporto rischi benefici. Il Tribunale di Mantova conferma l'ordinanza, limitando il ruolo del Comitato Etico a una "valutazione dell'opportunità etica di una terapia con cellule staminali in relazione alla specifica patologia", non essendo compatibile con l'urgenza e la gravità dei casi una "valutazione globale e dettagliata circa la presumibile eficacia del trattamento intrapreso" 5. Il tribunale di Mantova parla esplicitamente di tutela della speranza, in particolare: "il requisito richiesto dal decreto e relativo alla acquisizione di dati scientifici pubblicati su accreditate riviste internazionali può essere superato considerata la ratio della predetta normativa di urgenza che è quella di tutela della speranza di soggetti affetti da patologie che non hanno terapia efficace né prospettiva di guarigione" 6. Questa posizione è stata criticata in diverse sedi. Come scrive Mariangela Ferrari: "Il tentativo di riconoscere un presunto diritto alla speranza non solo non può essere giuridicamente validato poiché non si fonda su quelle necessarie garanzie di efficacia della cura per la guarigione o almeno per un prevedibile e comprovabile miglioramento, ma neppure può rappresentare un legittimo strumento di tutela del fondamentale diritto alla salute poiché assolutamente privo di evidenza scientifica" (Ferrari, 2014).
A conferma di questa posizione anche il CNB (CNB 2015), secondo il quale (CNB 2015) non esiste un diritto alla speranza, ma solo il "sentimento di speranza", sentimento di cui è necessario prendersi cura tramite il controllo su "come" il paziente sia assistito e "da chi", ma anche attraverso la garanzia di una informazione chiara e veritiera.
Il diritto alla speranza è indubbiamente legato alla qualità della vita. Se non è possibile sperare di non morire, possiamo sperare di non soffrire nelle fasi finali della vita e l'approccio palliativo ―richiesto dai medici in seguito alla sospensione dei trattamenti― non può rappresentare la fine della speranza, ma la certezza della cura della qualità di vita per la persona malata.
6. Conclusioni
Illustrare i profili etici emergenti nel caso del piccolo Charlie Gard può essere utile ad impostare un ragionamento morale che serva da filo conduttore nel dibattito pubblico e bioetico. L'etica rappresenta una peculiare istituzione normativa, "istituzione ―ossia una sorta di organizzazione dotata di significato e di coordinamento interno tale da essere in grado di svolgere una funzione sociale; normativa― che spinge le persone ad agire in un certo modo (...). Caratteristica dell'etica come istituzione sociale è la prescrittività, ossia la tendenza a far fare, a far apprezzare o far rabbrividire" (Mori, 2011). L'obiettivo del ragionamento morale è trovare, appunto, ragioni a sostegno delle scelte da intraprendere e in questo contributo sono stati evidenziati solo alcuni aspetti del dibattito, con l'intento di mostrarne l'intrinseca problematicità e al fine di sottolineare la delicatezza delle questioni trattate e l'importanza di mettere in campo competenze multidisciplinari.
In conclusione, è possibile ritenere valido, soprattutto con riferimento al caso del piccolo Charlie analizzato, il principio di equilibrio riflessivo descritto da Jhon Rawls e caratterizzato da 1) conoscenza, 2) ragionevolezza, 3) conoscenza empatica per i valori umani (Rawls, 1951). Il ragionamento morale così impostato è alla base di scelte non solo eticamente giustificate, ma anche comprensibili ―seppur non necessariamente condivisibili― da chi partecipa a vario titolo alle decisioni sulla vita e la morte. Lo strumento clinico a tutela dell'equilibrio decisionale può essere rintracciato nell'ACP. Esso rappresenta lo strumento clinico ed etico della condivisione delle scelte, potenziale argine a scontri ideologici e valoriali che richiedano un intervento esterno a tutela dell'interesse della persona vulnerabile ―in qualsiasi modo sia essa intesa, paziente incompetente o minore, come nel caso di Charlie Gard.