1. La questione affrontata
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia è stato recentemente chiamato a pronunciarsi sulla legittimità della norma regolamentare di un Comune che prevedeva quale condizione per l'iscrizione dei bambini agli asili comunali l'assolvimento dell'obbligo di vaccinazione1.
La pronuncia è di sicuro interesse sotto molteplici profili. Sul piano sostanziale, la sentenza tocca il problema di grande attualità dell'obbligo di vaccinazione (sia in sé e per sé, sia declinato come condizione per l'accesso a determinati servizi) e del suo rapporto, da un lato, con la libertà educativa dei genitori e, dall'altro, con il diritto alla salute di coloro che -magari in situazione di fragilità sul piano immunologico- si trovano a contatto con i soggetti non vaccinati. Sul piano del reasoning del giudice, essa offre spunti d'interesse in ordine alla maniera in cui il giudicante può affrontare questioni eticamente sensibili e che sottendono opzioni di natura ideologica, compito al quale il T.A.R. non si è affatto sottratto nel caso di specie, dando ampio conto in sede di motivazione dei punti di vista presi in considerazione.
Venendo ai termini della controversia, agiscono in giudizio due coppie di genitori per ottenere l'annullamento della delibera del Consiglio Comunale di Trieste recante modifiche al Regolamento comunale per i servizi della prima infanzia ed educativi comunali, avente ad oggetto l'introduzione dell'assolvimento dell'obbligo vaccinale quale requisito di accesso ai servizi educativi comunali per l'età da 0 a 6 anni.
Numerosi i vizi eccepiti in sede d'impugnazione, fra i quali possiamo limitarci a riprendere quelli più interessanti per la prospettiva biogiuridica. Prima di tutto, i genitori lamentano la violazione dell'art. 1 del D.P.R. n. 355 del 1999, ovvero della norma che -come si vedrà più approfonditamente in seguito- statuisce che la mancata vaccinazione non giustifica l'esclusione del bambino non vaccinato dalla frequenza alla scuola dell'obbligo: secondo i ricorrenti, infatti, tale norma esprimerebbe un principio generale suscettibile di essere applicato anche alla scuola dell'infanzia (che pur non rientra nell'obbligo scolastico).
Più ampiamente, viene poi contestata la stessa fondatezza del presupposto sui cui si basa il provvedimento del Comune, ovvero la necessità di riportare il tasso di copertura vaccinale obbligatoria a valori maggiori del 95%, soglia ritenuta dall'ente "di sicurezza" per la salute pubblica. I ricorrenti mettono radicalmente in discussione questa visione del modo di gestire gli obblighi vaccinali, sulla base di posizioni scientifiche evidentemente diverse da quella dell'Istituto Superiore di Sanità, espressamente richiamata dalla delibera.
Infine, essi contestano sotto più profili il bilanciamento dei valori in gioco operato dalla delibera: questa non avrebbe contemperato la tutela della salute della collettività con l'obiettivo della salute del singolo individuo, in relazione ai rischi derivanti dalle somministrazioni vaccinali. Fra l'altro, l'oggetto della delibera sarebbe "impossibile", in quanto in sede locale non risultano disponibili vaccini singoli ovvero in dosi multiple riferite alle sole vaccinazioni obbligatorie2. Sempre in quest'ottica, sarebbe stato violato anche il principio di proporzionalità, in quanto in mancanza di un serio rischio di contagio l'obbligatorietà delle vaccinazioni sacrificherebbe in maniera sproporzionata l'interesse dei singoli soggetti.
Il T.A.R. ha rigettato il ricorso con le motivazioni che saranno ripercorse nei prossimi paragrafi.
Già dalla sintetica enunciazione dei motivi di ricorso emerge tuttavia in maniera evidente il "tenore costituzionale" della questione, nella quale si pongono in tensione tre valori positivizzati tutti all'interno del Titolo II della Parte I della Costituzione, relativo ai "Rapporti etico-sociali". Si tratta del diritto alla salute, individuale e collettiva, inteso anche come diritto a non ricevere le cure (art. 32 Cost.); del "diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i figli", anche secondo modelli culturali alternativi rispetto a quelli maggioritari (art. 30 Cost.) e del principio secondo il quale "la scuola è aperta a tutti" (art. 34 Cost.).
La conflittualità generata da queste istanze, che non sempre si armonizzano, si riflette pienamente nella complessità che ha assunto il quadro normativo relativo alla "obbligatorietà" di alcune vaccinazioni. Il contributo ricostruisce prima di tutto l'intreccio normativo nel quale la pronuncia si inserisce (par. 2), per poi esaminare, da un lato, il trattamento che il giudice amministrativo fa dei singoli diritti che vengono in bilanciamento nel caso in esame (par. 3) e, dall'altro, gli espedienti argomentativi utilizzati dal giudice, sia con riferimento al peso da attribuire alle prospettazioni scientifiche dei ricorrenti, sia rispetto alla più ampia prospettiva filosofica con la quale la questione viene affrontata (par. 4), per poi concludere con una riflessione sulla tenuta complessiva della pronuncia commentata.
Dalla trattazione emergerà chiaramente come, in una prospettiva biogiuridica, le riflessioni bioetiche -con particolare riferimento alla libertà di scelta del paziente di sottoporsi o meno a un trattamento medico -non sono messe da parte ma rilette criticamente dal punto di vista dei diritti fondamentali e dei principi costituzionali: il focus si sposta dalla domanda su quale prospettiva sia più sostenibile sul piano etico a quella su quale sia quella che tutela meglio tutti i diritti in gioco3.
2. Il quadro normativo. Esistono (effettivi) obblighi di vaccinazione in Italia?
La legislazione italiana prevede quattro vaccinazioni obbligatorie, contro difterite (l. n. 891 del 1939), tetano (l. n. 292 del 1963), poliomelite (l. n. 51 del 1966) ed epatite B (l. n. 165 del 1991)4.
Il quadro sanzionatorio si è evoluto nel tempo nel senso di una decisa attenuazione. Inizialmente, era prevista una sanzione penale per i genitori in caso di omessa vaccinazione del figlio e i bambini non vaccinati non erano ammessi alle scuole e agli esami5. In seguito, la sanzione penale è stata sostituita da una sanzione amministrativa6 ed è caduto il divieto di ammissione7. Un'ultima fase - che incide in maniera piuttosto problematica sulla complessiva coerenza e "leggibilità" del sistema - si ha dopo la riforma costituzionale introdotta dalla l.cost. n. 3 del 2001, che vede la sostanziale regionalizzazione della materia sanitaria (ad eccezione della "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale", di cui all'art. 117, c. 2, lett. m, Cost.).
Nel quadro dei maggiori spazi di autonomia loro riconosciuti, alcune Regioni hanno proseguito in maniera decisa sulla strada della "neutralizzazione" dell'obbligo di legge, sospendendo anche la sanzione amministrativa8. La punta, in questo contesto, sembra essere la legge n. 7 del 2007 della Regione Veneto, la quale sospende l'obbligo vaccinale per tutti i nuovi nati a far data dal 1° gennaio 2008 (art. 1). Essa stabilisce però allo stesso tempo che tale sospensione possa essere, a sua volta, sospesa con ordinanza motivata dal Presidente della Giunta regionale - con ripresa dell'efficacia dell'obbligo - "in caso di pericolo per la salute pubblica conseguente al verificarsi di eccezionali e imprevedibili eventi epidemiologici relativi alle malattie per le quali la presente legge ha sospeso l'obbligo vaccinale, ovvero, derivante da una situazione di allarme per quanto attiene i tassi di copertura vaccinale" (art. 4).
Non è escluso che l'allarmante abbassamento della copertura al quale si assiste in questi anni -secondo i dati messi a disposizione dal Ministero della Salute9- porti a una inversione del trend descritto, anche perché l'efficacia della copertura vaccinale soprattutto nell'ottica del contenimento di ipotetiche epidemie dipende dalla c.d. "immunità di gregge" o di gruppo, ovvero dal fatto che l'elevata percentuale di soggetti vaccinati, impedendo la diffusione dell'infezione, protegge indirettamente anche i non vaccinati10.
Così ripresi i riferimenti normativi, è possibile svolgere alcune considerazioni. In primo luogo, rimane fermo in linea generale che la vaccinazione nei casi sopra indicati è un obbligo e, conseguentemente, la sua omissione un illecito. La Corte costituzionale è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla legittimità delle leggi istitutive di questo trattamento sanitario obbligatorio statuendo, in linea di principio, la sua conformità all'art. 32 Cost., "se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale", pur tenendo ferme alcune condizioni, ovvero:
che vi sia la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili;
che nell'ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio sia prevista comunque la corresponsione di una "equa indennità" in favore del danneggiato, a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria11.
Allo stato della normativa e oltre all'irrogazione della sanzione pecuniaria, vi è inoltre la possibilità per l'A.S.L. di sollecitare il Pubblico Ministero ad adire il giudice tutelare per l'adozione dei provvedimenti idonei a sottoporre un bambino a vaccinazioni, ai sensi degli artt. 333 e 336 cod. civ., rendendo quindi effettivo l'obbligo di vaccinazione12.
La giurisprudenza e la legislazione si sono fatte nel tempo carico di prendere in considerazione le situazioni nelle quali -ex ante- la somministrazione del vaccino si possa ritenere potenzialmente dannosa per la salute di un soggetto, in considerazione delle sue peculiari condizioni cliniche, e quelle in cui -ex post- un danno alla salute si verifichi effettivamente.
Nel primo caso, alla luce della giurisprudenza costituzionale appena richiamata, pur in assenza di norma espressa13, si riconosce all'autorità sanitaria nell'esercizio della sua discrezionalità tecnica14, e successivamente al giudice tutelare, il potere di accertare caso per caso la pericolosità di procedere alla somministrazione alla luce delle condizioni di salute e delle eventuali patologie presenti al fine di concludere per la liceità del rifiuto dei genitori o di demandare all'A.S.L. di procedere ugualmente alla vaccinazione, ma solo dopo esaurienti controlli per evitare rischi15. In ogni caso, viene però escluso che la mera contrarietà ideologica dei genitori ai vaccini possa essere ritenuta una causa di giustificazione per l'illecito amministrativo previsto dalla legge16.
Nel secondo caso, il legislatore è intervenuto con legge n. 210 del 1992, stabilendo un indennizzo per tutti coloro che abbiano riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica (art. 1). La Corte costituzionale è peraltro più volte intervenuta sulla norma, ampliandone l'ambito di applicazione17.
In questo panorama, la legge regionale del Veneto rimane un caso isolato. Nonostante la stessa non sia stata impugnata di fronte alla Corte costituzionale da parte dello Stato18, essa si presenta comunque dubbia sul piano della legittimità con riferimento al riparto delle competenze. Prima di tutto la riserva di legge in materia di trattamenti sanitari obbligatori (art. 32, c. 2 Cost.) sembrerebbe da intendersi come riserva di legge statale, rimanendo aperto il problema se gli stessi possano essere legittimamente "sospesi" da una legge regionale19. D'altro canto, l'obbligo vaccinale sembra rispondere non soltanto a fini sanitari ma anche di "ordine pubblico" (materia di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117, c. 2, lett. h Cost.): si può ricordare a questo proposito che la disciplina penale dei comportamenti volti al diffusione di agenti patogeni rientra nel Titolo VI del Libro II del Codice penale, che disciplina -appunto- i "Delitti contro l'incolumità pubblica".
Anche se si riconoscesse la legittimità ab origine della norma, rimarrebbe infine aperta la possibilità di ritenere che la mutata situazione di fatto (copertura vaccinale in preoccupante calo) imponga l'adozione di un piano strategico coerente ed effettivo a livello nazionale, facendo così viaggiare verso l'alto l'"ascensore" della sussidiarietà rispetto alle competenze legislative20.
3. Il trattamento dei principi costituzionali da parte del giudice
Dopo aver brevemente ripreso il quadro normativo generale, è ora possibile analizzare più da vicino la sentenza in commento: la prospettiva che qui si seguirà è quella di porre in evidenza il trattamento che hanno ricevuto i singoli diritti che si ponevano in conflitto nel caso concreto.
3.1. Il diritto alla salute
Il diritto alla salute ha naturalmente un ruolo centrale nella pronuncia in esame. Essa a ben vedere non deve affrontare soltanto un conflitto inter-valoriale ma anche infra-valoriale, ovvero fra più declinazioni del medesimo diritto alla salute, inteso come:
diritto a non ricevere il trattamento sanitario (nel caso di specie, la vaccinazione);
diritto alla salute nell'accezione collettiva;
diritto alla salute dei soggetti che vengono in contatto con coloro che non sono vaccinati21.
Il cuore dell'argomentazione del T.A.R. nel bilanciare questi confliggenti aspetti è costituito dalla constatazione secondo la quale "proprio i principi invocati dai ricorrenti non possono limitarsi ad un'applicazione parcellizzata e individualizzata, ma devono essere estesi all'intera collettività, con la differenza che per definizione l'interesse pubblico deve prevalere su quello dei singoli". Interesse pubblico che -nella situazione contingente- viene rafforzato, da un lato, dalla diminuzione della copertura vaccinale e, dall'altro, dai fenomeni migratori che la nostra società vive, con conseguenti "più frequenti contatti ... con soggetti provenienti da Paesi in cui le malattie sopra indicate sono ancora presenti".
Questo "classico" giudizio di prevalenza dell'interesse generale su quello particolare del ricorrente -peraltro coerente con la richiamata giurisprudenza costituzionale- viene nel caso di specie rinforzato dalla concorrenza con l'interesse generale di quelli individuali degli altri bambini iscritti alla scuola dell'infanzia (e specialmente di quelli con particolari debolezze e fragilità immunitarie), necessitati a convivere con i soggetti non vaccinati in un ambiente ristretto.
Il bilanciamento così linearmente operato però, a ben vedere, costituisce l'esito di un preliminare approfondito esame della posizione vantata dai ricorrenti, i quali ponevano particolare accento, da un lato, sulla non fondatezza degli assunti scientifici sui quali si fondavano le valutazioni compiute dalla delibera impugnata, dall'altro sull'elevata potenzialità dannosa del vaccino nei confronti della salute del proprio figlio a fronte della natura meramente ipotetica del rischio per la salute collettiva in presenza degli attuali tassi di copertura vaccinale. Nei termini proposti dai ricorrenti il differente grado di (potenziale) lesione degli interessi coinvolti ben avrebbe potuto portare a un diverso bilanciamento.
Di grande interesse dunque il procedimento tramite il quale la pronuncia "decostruisce" il ragionamento dei ricorrenti (che verrà meglio esaminato nel par. 4), mettendo in luce la sua intrinseca contraddittorietà -poiché "si basa su di un elemento non discutibile, cioè che gli altri soggetti della collettività non seguono lo stesso orientamento"- e quindi svuotandolo della sua potenziale carica argomentativa.
Oltre ai tre distinti profili del diritto alla salute finora esaminati, il Giudice triestino era chiamato ad esaminare lo stesso diritto non soltanto in quanto leso nella sua dimensione attuale, ma anche in quella potenziale e futura, ovvero sotto la lente del principio di precauzione22, evocato dai ricorrenti. Alla stregua di tale principio (rientrante sempre sotto la protezione dell'art. 32 Cost.), in materie sensibili come l'ambiente o la salute, per operare un corretto bilanciamento a livello giurisdizionale non bisogna prendere in considerazione solo l'attuale lesione del diritto, ma anche i rischi di effetti dannosi sulla salute dei soggetti coinvolti che in prospettiva possono prodursi a seguito, in questo caso, dell'adempimento dell'obbligo vaccinale.
Con il medesimo schema argomentativo utilizzato in precedenza, il Collegio però "ribalta" l'argomentazione dei ricorrenti, osservando che lo stesso principio "vale in senso opposto, nel rendere obbligatorie le vaccinazioni e nell'estendere la copertura della popolazione vaccinata"23. In effetti, è proprio nella logica di una corretta gestione del rischio a livello sistemico, ovvero tramite la prefigurazione degli effetti di un'epidemia in assenza di adeguata copertura, che si giustifica l'obbligo vaccinale.
La pronuncia affronta infine anche il problema dell'asserita "impossibilità dell'oggetto" della delibera a causa della non disponibilità di preparati contenenti le sole vaccinazioni obbligatorie, statuendo -in modo condivisibile- che tale profilo tocca le modalità operative dell'Azienda Sanitaria ma non certo l'esecuzione della delibera impugnata relativa alle scuole dell'infanzia. Anche il giudice però dimostra di concordare con i ricorrenti sul fatto che "non si può costringere nessun genitore a sottoporre il figlio alla vaccinazione non obbligatoria per legge, e che quindi è indiscutibile il suo diritto ad accettare solo quelle obbligatorie e non le altre": in effetti, qualora la questione venisse posta in un procedimento avverso l'operato dell'Azienda Sanitaria da parte di genitori non contrapposti aprioristicamente alle vaccinazioni in sé ma determinati a che il loro figlio riceva soltanto le vaccinazioni strettamente necessarie ad adempiere gli obblighi di legge, sarebbe difficile ipotizzare una risposta negativa a tale pretesa, con tutti gli oneri organizzativi che ne conseguono per l'Amministrazione (se del caso resi effettivi mediante il giudizio di ottemperanza di cui agli artt. 112 ss. c.p.a.).
3.2. Il diritto a fruire del servizio scolastico
Il diritto protetto dall'art. 34 viene in considerazione nel caso di specie sotto il peculiare profilo del principio di proporzionalità. Sinteticamente, si può ricordare come questo principio, derivato dall'ordinamento tedesco ma ormai acquisito anche in quello italiano per il tramite della giurisprudenza comunitaria24, comporta che ove il provvedimento comporti restrizioni ai diritti e alle libertà fondamentali dei cittadini, esso possa essere sottoposto a un "test di proporzionalità", articolato nei tre momenti concettuali di verifica: a) dell'idoneità (adeguatezza del mezzo utilizzato rispetto all'obiettivo perseguito); b) della necessità (assenza di altri mezzi idonei che comportino un minore sacrificio dell'interesse privato); c) della proporzionalità in senso stretto (sacrificio dell'interesse privato nella misura strettamente necessaria al raggiungimento dello scopo)25.
Secondo i genitori, il divieto di accedere alla scuola dell'infanzia ove non siano state compiute le vaccinazioni obbligatorie comporterebbe un sacrificio eccessivo del diritto del fanciullo rispetto agli interessi che intende tutelare. Per contro, la pronuncia osserva che "nessuno costringe i genitori a iscrivere i figli all'asilo comunale".
In effetti, nonostante qualche perplessità26, non sembra precluso all'ente locale, o in ipotesi alla Regione, operare con riferimento alle scuole dell'infanzia un bilanciamento diverso da quello operato dal legislatore statale con riferimento alle condizioni di accesso alle altre scuole, tanto più che le stesse esulano dall'ambito dell'obbligo scolastico, coperto dall'art. 34, c. 2 Cost.
Nella logica del bilanciamento, poi, deve venire in considerazione non solo il "peso" in astratto dei diritti in gioco, ma anche il grado della lesione (in concreto) che verrebbe in ipotesi portato agli stessi e, in questi termini, la progressiva diminuzione della copertura vaccinale e il potenziale vulnus alla salute collettiva che ne deriva è certamente elemento di fatto degno di considerazione27.
3.3. La potestà (rectius, responsabilità) dei genitori
Nella parte finale della pronuncia, e alla luce di quanto finora esposto, il giudice afferma sinteticamente che "non è in discussione la potestà genitoriale" anche se quest'ultima deve cedere il passo all'interesse generale.
L'affermazione sembra per certi versi fin troppo "generosa" rispetto allo stato della normativa. In linea generale, giova ricordare che la responsabilità genitoriale è un ufficio di diritto privato, ovvero un potere riconosciuto al genitore (o al tutore legale) nell'interesse del minore28: essa trova quindi naturalmente limitazione nei precetti legislativi e negli obblighi dagli stessi previsti.
Allo stato attuale, da questa potestà viene fatta discendere, in via giurisprudenziale, la facoltà di non sottoporre il minore al vaccino quando - a causa della sua peculiare condizione - possa derivargli un danno alla salute29.
In astratto, il fatto che la disposizione legislativa prescriva un trattamento a parere dei genitori dannoso per il minore permetterebbe loro senza dubbio di porre in questione la legittimità dell'obbligo di fronte alla Corte costituzionale, sollevando la relativa questione in via incidentale in un giudizio nel quale la norma sia rilevante per la soluzione del caso. In questo caso, tale strada è tuttavia impraticabile in virtù della esposta giurisprudenza costituzionale sul punto, tanto che la relativa istanza dovrebbe essere rigettata dallo stesso giudice investito della questione per la sua manifesta infondatezza. Ciò non toglie che, nell'(apparentemente improbabile) ipotesi nella quale la dannosità "strutturale" del vaccino venisse effettivamente dimostrata in maniera condivisa dalla comunità scientifica, la questione potrebbe probabilmente essere riproposta al giudice costituzionale, almeno a seguire la suggestiva teoria che vede la "letteratura medico-scientifica condivisa" come un potenziale parametro interposto di costituzionalità, andando ad integrare il concetto di "salute" di cui all'art. 32 Cost., nonché il principio di ragionevolezza (declinato in senso scientifico), derivato in via interpretativa dall'art. 3 Cost.30.
Ad avviso di chi scrive, rimane però ragionevole escludere in maniera netta che le mere convinzioni ideologiche del genitore possano rendere legittimo l'esercizio della patria potestà in contrasto con norme di legge.
4. Il metodo di giudizio. Un giudice non scienziato ma... Filosofo
Dal punto di vista del metodo di giudizio seguito, il collegio è fermo nell'escludere una propria presa di posizione in "disquisizioni scientifiche sulla necessità delle vaccinazioni e sui rischi che esse comportano" e "l'inammissibilità di questioni tecnico discrezionali" che esulano dall'ambito del giudizio, rimandando alla consolidata letteratura scientifica e alle determinazioni dell'autorità sanitaria.
Si pone in questo modo il delicato problema del peso che posizioni scientifiche minoritarie o non convenzionali -com'è attualmente quella che ritiene opportuna l'eliminazione delle vaccinazioni obbligatorie- possono avere nel processo. La selezione dei materiali posti alla base del processo decisionale (sia esso legislativo, amministrativo o giudiziale) è un problema centrale in quanto ne co-determina gli esiti ed è al tempo stesso indice della sua qualità31.
Mentre con riguardo al legislatore, anche per la discrezionalità politica di cui è titolare, il discorso presenta margini più indefiniti, la posizione del giudice rispetto alle diverse teorie scientifiche che si fronteggiano in una data materia sembra piuttosto vincolata32: se bisogna ammettere che, di fronte alle (nuove) possibilità di azione per la persona offerte dall'avanzamento della tecnica, il giudice, e specialmente il giudice costituzionale, sia il soggetto nella miglior posizione per operare un bilanciamento dei valori in gioco nel caso concreto, alla stessa conclusione non si può giungere ove si tratti di valutare teorie scientifiche.
Per dirlo in maniera netta, a meno di non voler riesumare una concezione totalizzante del giudice come peritus peritorum -quanto mai insostenibile nell'attuale complessità della conoscenza33- non sembra che nel processo vi sia spazio per "ponderare" teorie scientifiche, dal che consegue che in esso non sia strutturalmente possibile l'affermazione di teorie minoritarie, come sono - almeno al momento - quelle che reputano i vaccini aprioristicamente dannosi34.
Si pensi infatti allo strumento processuale per eccellenza per effettuare valutazioni scientifiche (e sindacare la discrezionalità tecnica della P.A.35), la Consulenza Tecnica d'Ufficio: in essa non può assolutamente svolgersi un dibattito scientifico volto al superamento delle teorie scientifiche più accreditate e accolte nel caso di specie dall'autorità sanitaria, in quanto il compito del consulente è precisamente quello di individuare e mettere a disposizione del giudice le nozioni proprie della lex artis con riferimento alla comunità di studiosi di riferimento, destinate a integrare il parametro di giudizio36, potendosi al limite discutere sull'individuazione della regola più adatta per il caso concreto e sulla corretta maniera di applicarla.
Per utilizzare la terminologia kuhniana, nel processo entra dunque sempre la "scienza normale" conforme al paradigma scientifico dominante37, pur nel suo divenire e tenuto conto che su specifiche questioni possono darsi più prospettive egualmente accreditate senza che si sia formata ancora una posizione netta nella comunità scientifica38 (il che tuttavia non avviene nel caso di specie).
La motivazione del giudice triestino assume però improvvisamente un respiro più ampio ove si sofferma sulle prospettive filosofiche connesse alla decisione. L'occasione di questo approfondimento viene data dalla posizione dei genitori, secondo la quale "il rischio derivante dalle vaccinazioni può diventare superiore a quello di contrarre le malattie oggetto delle vaccinazioni stesse", in quanto un'elevata percentuale dei genitori vaccina i propri figli (garantendo, s'intende, l'immunità di gregge anche ai non vaccinati). Il che comproverebbe ulteriormente, a detta dei ricorrenti, l'irrazionalità dell'obbligo.
Nel confutare questa posizione, la pronuncia fa esplicitamente riferimento al formalismo etico kantiano e - in senso più ampio - al principio di non contraddizione. La pretesa dei ricorrenti di non vaccinare i figli sarebbe dunque insostenibile in quanto, presupponendo un diverso comportamento da parte della maggioranza dei genitori, non sarebbe suscettibile di generalizzazione, richiamando la massima della Critica della ragion pratica: "Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale"39. Il richiamo alla prospettiva kantiana presenta certamente spunti d'interesse in campo bioetico e biogiuridico: proprio partendo dal principio secondo cui la libertà è diritto innato e originario, infatti, il filosofo di Könisberg mette in luce la costante tensione strutturale tra la propria e l'altrui libertà, non potendosi rivendicare la prima senza riconoscere al tempo stesso la seconda40. È per questo che per Kant, che pur distingue in partenza la volontà giuridica (eteronoma) dalla volontà morale (autonoma), il diritto costituisce a sua volta un fine etico, in quanto garantisce il coordinamento delle libertà individuali41.
Questa posizione si lega anche strettamente all'esigenza del rispetto del principio di non contraddizione, che non a caso è stato indicato da autorevole dottrina come uno dei criteri di giudizio da adottare preferenzialmente in ambito bioetico in quanto da annoverare fra i "modelli che più di altri possono essere ammessi in termini, se non oggettivi, perlomeno riconoscibili da molti come non troppo equivoci"42. Se esso viene individuato come strumento per valutare la normazione, a maggior ragione pare sensato pretendere che i "personali progetti di vita"43 dei quali i soggetti reclamano tutela innanzi alle istanze giurisdizionali non si basino su premesse intrinsecamente contraddittorie, le quali -qualora fossero avallate dal giudice- contribuirebbero all'incoerenza, o "schizofrenia", del sistema.
La strategia argomentativa perseguita dai ricorrenti ha quindi incontrato quasi una doppia barriera all'interno del reasoning giudiziale: da un lato, l'impossibilità stessa di vagliare la fondatezza di teorie scientifiche pacificamente minoritarie, dall'altro, quella di dar seguito a pretese fondate su premesse contradditorie in quanto non "autosussistenti", ovvero che presuppongono aprioristicamente il mantenimento di un comportamento opposto da parte della maggioranza.
Ampliando ulteriormente la prospettiva sul piano bioetico, si può notare come la pronuncia del T.A.R. non sottenda in alcun modo una concezione del diritto sanitario vicina al c.d. "paternalismo medico", ovvero a quella prospettiva -ormai superata- che si centrava sull'idea di una superiorità del medico rispetto al paziente, sull'obbedienza incondizionata del paziente rispetto alle direttive di questo e sulla restrizione all'essenziale dell'informazione somministrata al paziente: un sistema in cui era sostanzialmente il medico l'attore di tutte le decisione in ordine alla cura44.
Com'è noto da tempo ormai l'impostazione del rapporto medico-paziente si è tendenzialmente rovesciata, con l'affermazione dell'autonomia del paziente e della sua libertà di scelta consapevole come punto di partenza di questa relazione, che trova la sua chiave di volta nel principio del consenso informato45. Esso è ormai recepito giuridicamente a livello sovranazionale nella Convenzione per la protezione dei Diritti dell'Uomo e della dignità dell'essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina (c.d. Convenzione di Oviedo del 1997, art. 5) e implica una rivoluzione copernicana nella relazione medico-paziente, mettendo al centro la capacità di raziocinio del paziente, che compie le scelte sul proprio essere e operare d'accordo con il suo personale sistema di valori46.
Questo principio si inserisce appieno nella prospettiva della Convenzione, secondo la quale "l'interesse e il bene dell'essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società o della scienza" (art. 2). Se si pensa però al caso delle vaccinazioni non si dà una contrapposizione essere umano-società, ove la società è intesa in senso astratto, ma fra la libertà del soggetto che non intende sottoporsi (o meglio, sottoporre il proprio figlio) alla vaccinazione e la salute degli altri esseri umani che, in concreto, vengono a contatto con il soggetto non vaccinato. Sembra calzante a questa problematica l'osservazione secondo la quale in un contesto di pluralismo etico, la alterità implica la giuridicità, la convergenza del giuridico e dell'etico reclama il superamento della nozione di dovere morale personale in cui si centra la bioetica per l'inclusione dell'altro, del diritto dell'altro47.
Non si tratta di negare la logica che sta alla base del consenso informato -tanto che ai genitori spetta comunque di sorvegliare tutti quei casi in cui è più probabile che si produca un danno alla salute del figlio, onde sollecitare quantomeno la dilazione del trattamento- quanto di riconoscere, sul piano etico prima ancora che giuridico, come la tutela dell'altro possa essere fonte di doveri per il soggetto, che si sobbarca (al pari degli altri) anche dei rischi nell'interesse collettivo.
Nello stesso si pongono peraltro i documenti adottati finora in materia dal Comitato Nazionale per la Bioetica48. Il primo in ordine cronologico, e più ampio, è il parere del 22 settembre 1995, il quale dedica un'apposita sezione ai profili etici, osservando che "la vaccinazione ripropone il tema della cura della vita, che è al centro dell'intera bioetica, ma lo fa esasperandone alcuni termini quali il rapporto tra bene pubblico e privato, tra libertà individuale ed eventuali interventi dello Stato a carattere coercitivo".
Il nocciolo dell'argomentazione del Comitato risiede nel duplice scopo della vaccinazione, tutela tanto dell'individuo quanto dei soggetti che lo circondano e sono a rischio di contagio, al punto da definire "falsa concezione della libertà individuale" quella che non si faccia carico dei danni per gli altri che possano derivare dalle proprie scelte49.
Più di recente, nel contesto della crisi di copertura vaccinale che si preannunciava, il 24 aprile 2015 il Comitato ha adottato una mozione su "l'importanza delle vaccinazioni". Essa riprende le linee del parere, affermando che esse hanno un "valore non solo sanitario ma anche etico assai rilevante", ponendo l'accento su un ulteriore elemento di riflessione: la vulnerabilità dei bambini individua il problema della loro protezione come "un importante fattore di equità", costituendo fra l'altro il diritto ad essere vaccinato una declinazione del superiore interesse del fanciullo. Il riferimento è alla fondamentale categoria del best interest of the child, introdotta da un altro importante strumento internazionale elaborato nell'ambito delle Nazioni Unite, la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, che fornisce una base concettuale e giuridica a un intervento dell'autorità sanitaria anche in contrasto con la volontà dei genitori, nel caso in cui si reputi che la stessa non è orientata alla miglior tutela della salute del bambino.
Il breve mosaico di posizioni appena esposto rende l'idea di come nella complessa problematica delle vaccinazioni obbligatorie la libertà di decisione dei genitori sul vaccinare o meno il proprio figlio sia soltanto una delle posizioni che vengono in considerazione, destinata nel caso di specie a rimanere recessiva rispetto a imperative esigenze sociali, e come la stessa pluralità di prospettive e di interessi che si intrecciano impongano il passaggio dal piano bioetico a quello propriamente biogiuridico, dal momento che l'intervento del diritto diviene necessario al fine di tutelare l'altro di fronte alla libertà di scelta del soggetto.
5. Conclusioni
La decisione di rigetto del ricorso adottata dal T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia è in linea di massima condivisibile e coerente con l'attuale quadro normativo e giurisprudenziale.
Come si è cercato di porre in luce nelle pagine che precedono, essa si presta a interessanti riflessioni sia sul piano sostanziale -il bilanciamento degli interessi in gioco concretamente operato dalla decisione- sia su quello dell'iter logico seguito nelle argomentazioni.
Con riferimento al primo, si è visto come il caso presentasse un singolare intreccio di interessi costituzionalmente protetti fra loro confliggenti. Sulla linea della giurisprudenza costituzionale, il Giudice amministrativo ne ha operato una valutazione non parcellizzata ma complessiva, cercando di massimizzare la tutela di tutte le posizioni in considerazione. La ragionevolezza della norma comunale che pone la vaccinazione a requisito per l'iscrizione agli asili viene ricavata soprattutto dal fatto che, oltre alla tutela della salute collettiva, viene in considerazione anche il diritto alla salute di altri soggetti che usufruiscono del medesimo servizio e che "per problemi immunologici di varia natura non siano vaccinabili o che nonostante una corretta vaccinazione non riescano a sviluppare una risposta anticorpale protettiva"50. Allo stesso tempo, la salute del soggetto che deve essere vaccinato trova ormai una sufficiente protezione a seguito dei temperamenti che le norme hanno subito nel corso del loro "cammino giurisprudenziale": ai genitori e all'amministrazione sanitaria, prima, e al giudice tutelare, poi, è riconosciuto comunque un significativo margine di valutazione con riferimento a tutti quei casi in cui il vaccino possa recare danno alla salute del bambino51.
Sul piano delle tecniche decisorie la pronuncia si presta a considerazioni ancor più articolate. Prima di tutto, emerge un limite strutturale del processo nell'affrontare quelle che si possono qualificare come teorie minoritarie o "alternative": esse, per quanto articolatamente argomentate, difficilmente trovano spazio in un contesto in cui -anche avvalendosi dello strumento della consulenza tecnica- si dovranno sempre prendere a riferimento della decisione le posizioni scientifiche comunemente accettate.
Il Giudice amministrativo si presta invece volentieri ad approfondire le implicazioni filosofiche delle teorie prospettate e, richiamando la prospettiva kantiana, dimostra anche su questo piano l'infondatezza della pretesa dei genitori di non vaccinare i figli (pretesa basata sull'assunto che la cd. "immunità di gregge" sarebbe stata comunque assicurata dal fatto che gli altri bambini fossero già stati perlopiù vaccinati: un comportamento per sua natura non suscettibile di essere generalizzato si rivela infatti insostenibile sul piano etico prima ancora che giuridico. La pronuncia di dimostra così coerente anche con gli orientamenti sulla questione vaccinale del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ha dimostrato come la "libertà dalla cura" non possa essere concepita in modo puramente individualistico, senza ponderare le conseguenze che il mancato trattamento sanitario potrebbe avere rispetto alla collettività.